lunedì 26 luglio 2021

Di trine d'oro e mostruosità: fiaba, trama esistenziale e congruenza


 


Il verbo “tessere” è molto comune nelle fiabe tradizionali: nelle fiabe italiane, ad esempio, si tesse spesso una trina preziosa. Una trina d’oro, come dono di nozze o come sfida tra contendenti.

Più precisamente, seguendo la Morfologia della Fiaba di Propp (1928), la filatura della trina rappresenta la funzione della messa alla prova o compito difficile a cui vengono sottoposti l’eroe e l’eroina, come succede nelle fiabe toscane “Il palazzo delle scimmie” e “Testa di Bufala”.

Come direbbe Franco Battiato, nelle fiabe, allora, si tessono trame d’incanto.

Un lavoro certosino e dal significato di profonda e irreversibile trasfigurazione del protagonista: ne “Il palazzo delle scimmie”, la sposa scimmia, grazie alla magnificenza della trina tessuta, riuscirà a trasformarsi in una splendida fanciulla.

Alla stessa stregua, “Testa di Bufala”  - trasformata in mostro per il suo egoismo - sarebbe diventata la bella fanciulla di un tempo solo nel momento in cui si fosse ricordata di porgere riconoscenza alla sua madrina con la possibilità, da qui, di ottenere l’agognata trina d’oro, richiesta dal principe come prova da superare (Carubbi, 2018).

In entrambi i casi, scimmia e bufala possono tornare alla loro singolare umanità solo attraverso un lavoro di congruenza (Rogers, 1957) e, di conseguenza, accettazione (ibidem) della propria mostruosità

In Psicoterapia succede la stessa cosa: il cliente prosegue verso la lenta, difficile ma prodigiosa tessitura della propria trama esistenziale, dove tutte quelle parti del sé considerate mostruose, riescono a integrarsi nella persona come trine preziose.

Allora, la filatura della trina d’oro rappresenta, in modo metaforico, il potere della parola, della narrazione che riesce a donare una cucitura storica, unica e irripetibile, ai nostri pezzi sparsi esistenziali: soprattutto a quei particolari distorti e negati (Rogers, 1951) dell’esistenza.

In altre parole, il tessere attraverso la parola permette la progressiva integrazione della nostra parte straniera e strana. Delle nostre stramberie. Delle nostre parti scimmiesche e delle nostre “teste di bufala”.



Francesca Carubbi
Psicoterapeuta e Autrice
www.psicologafano.com
www.alpesitalia.it


domenica 25 luglio 2021

Infanzia, apprendimento cooperativo e senso di comunità: la fiaba come collante sociale

 


I bambini sono profondamente saggi: quando un loro compagno o amico è in difficoltà, mostrano autentiche capacità di aiuto e sostegno.


Si chiama empatia, ed i bambini la sanno usare molto bene.

I bimbi, in altri termini, se possono godere di un ambiente facilitante la crescita e lo sviluppo delle loro skills emotive e relazionali, sanno cooperare per un fine comune.

È ciò che viene definito “apprendimento cooperativo” (Johnson et al., 2015), ossia un tipo di apprendimento che non si basa sulla competitività, bensì sul concetto di collaborazione, attraverso la creazione di un clima contraddistinto da:

  • interdipendenza positiva;

  • responsabilità individuale e di gruppo;

  • interazione simultanea e costruttiva;

  • partecipazione equa;

  • abilità sociali, come ad esempio il saper comunicare e il saper riflettere con fine ultimo la riuscita gruppale;

  • valutazione, non tanto quantitativa, ma basata su un’autovalutazione riflessive circa le proprie competenze metacognitive.

Da quanto premesso, si può ben dedurre quanto una competenza della “persona di domani” (Rogers, 1977; 1980)  sia, appunto, un’autentica empatia sociale - ossia che l’”IO” e il “TU” possano trasformarsi, come ci insegna Martin Buber in un “NOI” -, che pone “come prioritario il senso di benessere bio - psico - sociale (Howell, Zucconi, 2003), proprio e quello altrui” (Carubbi, 2019, pp. 27 - 28)” e, da qui, “affinché ogni Persona possa attualizzare la propria vita, i propri desideri, le proprie aspirazioni, il Sistema in cui vive deve garantire l’accesso agli strumenti indispensabili all’autorealizzazione e sviluppo del proprio benessere, attraverso una partecipazione attiva nella propria Comunità, intesa come <ponte di riconoscimento reciproco> (Devastato, 2018)” (ibidem).

La fiaba, allora, diviene dispositivo adatto per facilitare le competenze di cooperazione, attraverso azioni di Networking (Carubbi, 2019),  lo spirito di solidarietà sociale, l’altruismo e l’empatia,  in quanto fu, è e sarà sempre, proprio perché nato dalla saggezza popolare (Pitrè, 1875) - da quel popolo che si è trasformato in gruppo/pelle, quindi comunità, per esorcizzare la paura dell’ignoto e della minaccia, per il bisogno di stare uniti (Rossi, 1994, cit. in Carubbi, 2019) - “lo strumento attraverso il quale si mantiene unita, la notte, la famiglia numerosa o l’intero vicinato” (Rossi et al., a cura di, 1994)


domenica 18 luglio 2021

Narrazioni resilienti: fiaba ed empowerment di comunità

Come ci ricorda Donata Francescato (a cura di, 1983), il termine Psicologia di Comunità apparve per la prima volta negli U.S.A nel 1965, all'interno di un periodo storico contraddistinto da cambiamenti sociali epocali - lotte per i diritti civili, per le uguaglianze - sulla scia dell’esigenza di modificare un sistema socio - sanitario per cui l’Uomo potesse divenire il Centro di ogni percorso di prevenzione, cura e riabilitazione. 

La Psicologia di Comunità, in altre parole, nasce nel momento in cui si riconosce l’impossibilità di ridurre il funzionamento - sano e non - della persona al solo fattore individuale, concentrandosi, da qui, sulle interrelazioni sistemiche tra questi e, appunto, la comunità in cui è inserito: la comunità diviene, allora, sia fattore di rischio che protettivo - in termini di empowerment e benessere - di ciò che chiamiamo Promozione della Salute (Zucconi, Howell, 2003), soprattutto per quelle fasce di popolazione più vulnerabili e, quindi, più fragili perché a rischio di esclusione partecipativa di Comunità (immigrati, gruppi sociali con povertà educativa, famiglie a rischio di povertà…).

 Come ci ha insegnato il Coronavirus, infatti, uno dei maggiori fattori di rischio o iatrogeno per l'affermarsi della psicopatologia è l’isolamento e, da qui, la mancanza di relazioni. Isolamento che, se da un lato, è stata l'unica arma per contrastare il contagio, dall'altro ha prodotto nel soggetto la nascita di una destabilizzante precarietà e di un profondo senso di solitudine. 

Fattori, questi, che hanno portato ad una maggiore incidenza sintomatologica (episodi ansiosi, depressivi, maggior abuso di sostanze…) La Comunità, in tal senso, si è trovata spesso, nei secoli, ad affrontare traumi importanti, causati dal dover affrontare realtà difficili e ricche di incognite. 

Epoche “buie” in cui l’Essere Umano, inevitabilmente, ha percepito un minor senso di autoefficacia e minor empowerment personale.

Da qui, la Storia Popolare e Folkloristica ci insegna come, durante suddette epoche, il Sociale divenisse una tale fonte di sicurezza e appartenenza (Maslow, 1962), da riuscire a promuovere connessioni e legami stabili e duraturi. Reti informali che hanno avuto il potere di aggregare gli individui all'interno di un tessuto affettivo che potesse stemperare la paura dell’arcano e dell'inconoscibile. 

In tal senso, come ci ricorda Rossi, in prefazione de “Fiabe Marchigiane” (cit. in Carubbi, 2019), la Fiabe nascono come possibilità di dare un senso all'angoscia derivata da una natura percepita come ostile e che trasse ispirazione da fatti realmente accaduti ma trasformati in un prodotto culturale “sui generis” (Propp, 1926; 1948) di carattere fantastico, surreale e dal potere profondamente evocativo e simbolico. 

In altri termini, il Folklore orale era un modo per tenere viva e resiliente una Comunità. Per questi motivi, la Fiaba è strumento di facilitazione di una resilienza comunitaria attraverso la narrazione e la bellezza delle parole. 

Le Fiabe, in tal senso, possono essere considerate trame narrative esistenziali, grazie alle quali possiamo dare una prima risposta ai tanti “perché” che ci circondano, rendendo il reale meno minaccioso e più comprensibile. 

Inoltre, in un’ottica transgnerazionale, non dobbiamo dimenticare che le Fiabe si confanno particolarmente alla mente del bambino, in quanto rispondono ai suo bisogno di concretezza, di una costruzione della realtà antinomica o in “bianco e nero” e alla sua fonte inesauribile di pensiero magico: con i racconti, il bimbo può dare una prima spiegazione “scientifica” ai fenomeni attraverso un linguaggio semplice, chiaro e privo di ambiguità e dove i personaggi, ben definiti, possono ben rappresentare, grazie all’empatia (Carubbi, 2018; 2019), il suo alter ego con potersi identificare. 

Riassumendo, la Fiaba in ambito di Comunità “[...] si inserisce, nel percorso progettuale, come strumento di: abbattimento dei pregiudizi e degli stereotipi sociali; facilitazione delle competenze sociali, relazionali ed emotive; prevenzione dei comportamenti a rischio (Carubbi, 2018)” (Carubbi, 2019).

Francesca Carubbi
Psicoterapeuta e Autrice
Fano (PU)