Si può pesare il dolore? Esiste una misura in grado di dire
quando è normale soffrire e quando, al contrario, no? Chi può decidere cosa sia
degno di un pianto, di una disperazione, di un affondo? Chi può essere il
Giudice Supremo nel definire, una volta per tutte, per cosa ci possiamo sentire
atterriti, privi di terra sotto i piedi?
Si dice tante volte ai bambini di non piangere, di
trattenere le lacrime per tutto ciò che ci appare come sciocchezza. E l’aspetto
più tragico di tutta questa faccenda, è che mettiamo tutto sotto una lente di
ingrandimento, soppesando il livello per cui valga la pena offrire, o meno, una
lacrima… “Allora… hai perso un giocattolo…Mhhh…Non credo sia la fine del mondo…
Non piangere!... Pensa a chi è più sfortunato di te!”
“Pensa a chi è più sfortunato di te!”. Non ho mai trovato
nella mia esperienza una frase più lapidaria e giudicante di questa. Perché? In primis, perché si
presume che io, adulto, ne sappia molto più di te, bambino. Perché ho l’ultima
parola sulla dignità del tuo groppo in gola che, magari con un gesto sfrontato
della mano, lo liquido come un mero e sciocco capriccio. Perché non rispetto il
tuo sentire, calpesto la tua fiducia organismica (Rogers, 1951). Perché veicolo
il messaggio, non troppo implicito, che il Dolore, unico, soggettivo e
irripetibile, è una fetta di formaggio
che si pesa a grammi. Tuttavia, la sofferenza di ognuno di noi non può essere
paragonata ad una fetta, più o meno sottile, di salame.
Perché succede questo? Perché siamo certissimamente convinti, o più probabilmente
perché per primi ne abbiamo paura, che sia
meno doloroso e sopraffacente pensare che il dolore, appunto, abbia tante sfumature,
possa essere controllato, parcellizzato, sfilettato e, se necessario,
inibito: vedere un bambino piangere, soffrire, inevitabilmente, ci porta a
contattare il nostro di groppo in gola, la nostra primaria difficoltà e/o
impossibilità a dare la giusta dignità alla nostra sofferenza. In altre parole,
la nostra incongruenza (Rogers, 1957) non facilita l’emersione autentica delle
sfumature emotive, nostre e quelle dei nostri bambini.
Allora, se vogliamo davvero aiutare i nostri piccoli a non
vergognarsi e sentirsi in colpa delle loro lacrime, smettiamo di ritenere che
il dolore sia una misura oggettiva e uguale per tutti. Ma per fare ciò, occorre
che noi, per primi, iniziamo a scavare nella nostra memoria per trovare quelle
lacrime e quei singhiozzi strozzati e incompresi da troppo tempo. Perché ognuno
di noi sa, in quanto agente profondamente saggio (Rogers, 1951), quale sia il “reale
peso” della propria sofferenza.
©Francesca Carubbi
psicologa e psicoterapeuta rogersiana
Autrice
www.psicologafano.com
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