domenica 8 agosto 2021

Frankenstein: un Romanzo o Fiaba d’Autore sull’importanza della congruenza

 


Frankenstein nacque per caso: nell'estate del 1816

(anno ricordato come l’”anno senza estate”), durante

la quale cinque amici, per sconfiggere la noia di una

serata uggiosa e piovosa, iniziarono a inventare,

una storia di terrore ciascuno.

Mentre Polidori, medico di fiducia di Lord Byron, inventò il celeberrimo “Il Vampiro” - in cui compare, per la prima volta, il vampiro come noi lo conosciamo, ossia dai lineamenti affascinanti e aristocratici -, Mary Shelley, dal canto suo, diede vita ad un altro illustre personaggio: Frankenstein, celebrato in tantissimi film a lui dedicati.

Frankenstein è il chimico svizzero che darà vita ad un Demonio - come da lui definito - talmente orripilante e mostruoso da essere abbandonato al suo triste e solitario destino.

La creatura, se volessimo seguire lo schema fiabesco di Propp (1928), rappresenta l’antagonista per antonomasia: il nemico giurato dell’eroe. È vero: il Mostro, alla stessa stregua di ogni anti eroe che si rispetti, si è macchiato, per terribile vendetta, dei crimini più efferati, mentre il Dr. Frankenstein, d'altra parte, sembra incarnare la vittima "innocente" consumata dal dolore e dall'ingiustizia...

Ma a una lettura approfondita del romanzo, possiamo essere davvero certi che l’eroe sia davvero tale? E che la creatura, di converso, sia il male assoluto?

Come non provare una nota di compassione per quel Mostro creato solo per un capriccio di onnipotenza? 

Come non sentire, in modo empatico, il senso di ingiustizia per non riuscire ad essere amato e accettato per ciò che è? 

La creatura di Frankenstein, gettata a sua insaputa nel mondo - come racconterà lui stesso al suo creatore - , ha vagato alla ricerca disperata di asilo. 

Di una casa fatta di relazioni e di umanità: sente così profondamente inutile la sua esistenza pervertita da voler perire, infine, con chi gli ha dato vita: morto Frankenstein, si autodistruggerà anche il Mostro: “[...] Non temete, non sarò più causa di futuri misfatti, la mia opera è quasi completa [...] Morirò [...] Chi mi ha portato in vita è morto, e quando io non ci sarò più anche il ricordo di noi due svanirà in fretta” (Shelley, 1818; 1831, trad. it., pp. 242 - 243).

Frankenstein, in tal senso, è un romanzo sulla perdita, sul dolore, sulla caduta degli dei e sul tentativo, da qui, di cercare di sviluppare, nonostante il rifiuto, la propria Tendenza Attualizzante (Rogers, 1980) in modo più umano e, quindi, reale possibile.

Un’attualizzazione che, tuttavia, a causa di un ambiente non facilitante la crescita (Rogers, 1951), non ha avuto possibilità di emergere, per il fatto che la Saggezza Organismica (ibidem) non ha avuto spazio di manovra: la rabbia per il rifiuto si è andata, man mano, a trasformarsi in furia cieca distruttiva così ben rappresentata dalla creatura, alias l'alter ego del Dr. Frankenstein: un sé ideale - dai toni onnipotenti e narcisisti - che ha costantemente negato il suo vero sé, ossia la sua umanità mortale, finita e vulnerabile, in quanto è ciò che ci rende Esseri Umani autentici; allora, per diventare Umani congruenti, tutti noi, somiglianti al nostro Frankenstein, non possiamo negare e distruggere lo straniero/Mostro che ci appartiene, ma accettarlo affinché la sua distruttività non ci annienti.


Francesca Carubbi

Psicoterapeuta e Autrice

www.psicologafano.com

www.alpesitalia.it


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