mercoledì 17 maggio 2023

Fiaba del popolo nascosto: un fiaba islandese come esempio di lettura rogersiana


 Oggi, ho scelto una fiaba del Nord. Precisamente, una trascrizione di un racconto orale che, nonostante non soddisfi tutti i criteri delle tipiche funzioni fiabesche (ad es. viene omessa una terza sorella, a differenza del racconto magico tradizionale), può essere utilizzato come un buon esempio di lettura rogersiana. Il racconto, islandese, che ho scelto, si intitola "Fiaba del popolo nascosto".

Prima di offrire una mia possibile lettura, occorre partire da un incipit fondamentale: le basi fondamentali dell'approccio rogersiano.

Come sappiamo, la personalità può essere indicata con il termine "sé", che è formato dalla nostra gestalt percettiva - affettiva e razionale, in termini di consapevolezza dei propri vissuti emotivi; della percezione del proprio grado di incongruenza o disaccordo interno; del modo di rapportarsi alla propria esperienza e della modalità di costruzione della realtà; della capacità di autorivelazione; dello stile relazionale; e, non da ultimo, dal modo di affrontare i diversi ostacoli che la vita, naturalmente, ci pone 

Nello specifico, Rogers (1951) ci insegna che, se riusciamo a godere di un clima favorevole alla crescita e all'autoaffermazione, il nostro sé si formerà in modo flessibile, sufficientemente equilibrato e, soprattutto, libero e responsabile, in quanto può contare nella sua verità interiore (Locus of Evaluation Interno): in tal caso, il vero sé è la bussola per orientarsi nel mondo, al fine di direzionare la propria esistenza verso la realizzazione della propria Tendenza Attualizzante (Rogers, 1980).

Ma, allo stesso tempo, siamo informati di come questo "sé" devi verso forme esistenziali profondamente inautentiche o incongruenti, nel caso in cui il sistema educativo non sia sensibile ai bisogni evolutivi del bambino, con la triste conseguenza di un progressivo adeguamento - e perdita della propria Saggezza Organismica (Rogers, 1951) - ai valori, vissuti emotivi, modalità di costruzione della realtà di tutti coloro che fanno parte della sua sfera sociale, in primis i genitori.

In soldoni, il bambino, futuro adulto, inizierà a far propria una percezione esperienziale non propria e, aspetto non da poco, inizierà a distorcere ciò che sente come autentico, perché non accettabile, negandone l'esistenza: ecco, allora, che si forma la coerenza, ossia quel sé (che io chiamo impalcatura) che, sì, sorregge il soggetto ma, allo stesso tempo, lo rende inflessibile.

Tuttavia, se dovesse subentrare una crisi interiore - una collisione tra un falso sé, coerente, che cerca di tenere salda suddetta impalcatura, e il vero sé, che preme per avere parola - la persona avvertirebbe ciò che Rogers definisce (ibidem) uno stato nascente di ansia, tensione o disaccordo interno: una frattura interiore che permetterebbe l'interrogazione dello stato di sofferenza.

Questa premessa appare fondamentale nel momento vogliamo utilizzare lo strumento fiaba nelle relazioni di aiuto. Come?

Partiamo dal narrare, in poche parole, l'intreccio della fiaba islandese, di cui sopra: innanzitutto, preme sottolineare come questo racconto abbia insita la presenza di "esseri meravigliosi" (Thompson, trad. it. 2016): in questo caso, siamo in presenza di spiriti che, classicamente, mettono alla prova i protagonisti.

In tal senso, come in molte altre fiabe (vedi "L'acqua nel cestello"), abbiamo due sorelle, di cui una appare la saggia (e, qui, possiamo trovare già un'assonanza con l'Approccio), e l'altra "la sempliciotta" o "la sciocca", come la chiamerebbe Thompson (ibidem), che non riesce a individuare la messa alla prova o "tranello", pagandone le conseguenze.

Le due sorelle (Helga, la saggia ma la meno amata, e Asa, la sciocca) vivono in un contado. Una sera, Helga, rimanendo a casa per ordine dei genitori, mentre sfaccenda nel fienile, viene chiamata da una bambina che le chiede da mangiare: la ragazza, senza battere ciglio, la soddisfa.

Così accade per altre prove.

Succede, poi, che la stessa ripetizione viene proposta anche ad Asa, la quale, immancabilmente, fallisce e muore.

Seguendo la premessa, più sopra, come potrebbero essere lette le funzioni della fiaba?

Helga è la Saggezza; colei che, nonostante gli ostacoli (la messa alla prova degli spiriti), può attingere al proprio potere personale, perché ha fiuto e si fida di sé.

Asa è la coerenza che ripete sempre gli stessi errori: non riesce ad apprendere dall'esperienza, perché non percepisce il grado di disaccordo interno. Appare come granito. Irremovibile. E, perciò, si sabota.

L'atteggiamento di Helga, infatti, è quello di una persona centrata, che sa porre limiti e che, nonostante la paura, sceglie il coraggio: "[...] Appena arrivata alla stalla, nell'attimo in cui sta per dare da mangiare alla mucca, le si avvicina un uomo che le chiede: < ci verresti con me nel fienile?>

<No>, risponde Helga decisa, <non ci vengo.>".

un "No" salvifico, perché autentico. Non si passa attraverso quel "No". Un "No" che è specchio della sua Tendenza Attualizzante (Rogers, 1980).

Da un punto di vista rogersiano, le fiabe, allora, possono essere un valido strumento per farci apprendere l'importanza della nostra saggezza; della fiducia in noi; del nostro empowerment, nonostante le avversità.

Infatti: "L'eroe stringe i denti e si risolleva, combatte, anche quando crede che ormai sia tutto finito" (Carubbi, 2018).

Francesca Carubbi

psicologa - psicoterapeuta, Fano (PU)

Autrice e condirettrice, Alpes Italia, Roma


Bibliografia:

Carubbi F. (2018). Paco, le nuvole borbottone e altri racconti. L'uso delle fiabe nell'infanzia per un'educazione centrata sul bambino. Alpes Italia, Roma

Cosimini S. ( a cura di). (2016). Fiabe islandesi. Iperborea, Milano

Thompson S. (2016). Trad. It. La fiaba nella tradizione popolare. Il Saggiatore, Milano.

Rogers C. R. (1951). Client Centered Therapy. Hougton Mifflin Company, Boston. Trad. It. Terapia Centrata sul Cliente, la merdiiana, Molfetta.

Rogers C. R. (1980). A Way of Being. Hougton Mifflin Company, Boston. Trad. It. Un Modo di Essere. Martinelli, Firenze, 1983 


domenica 3 luglio 2022

La "violenza" nella fiaba come metafora di una "violenta congruenza"

La Bella Addormentata - G. Doré, 1862

 






Talvolta, in Studio, giungono clienti spaventati dalla violenza

con cui hanno scoperto una parte di sé, sino ad allora

sconosciuta ai loro occhi.

Non dobbiamo dimenticare, infatti, che la coerenza interna (Rogers, 1951) non è un qualcosa da estirpare, soprattutto se questa è parossisticamente rigida e inflessibile.

In tal senso, paragono il nostro grado di coerenza interna come ad un’impalcatura, e la congruenza, d'altro canto, al palazzo che sta sotto.

In persone con una struttura resistente al cambiamento oppure profondamente inconsapevoli del proprio grado di disaccordo interno (ibidem), la loro impalcatura se vogliamo utilizzare la metafora di cui sopra, sembra solida ma, a ben guardare, potremmo notare importanti crepature alla sua base che, a causa di un’ipotetica forte sollecitazione, potrebbero mettere alla prova il suo precario equilibrio.

Ecco: in talune occasioni, determinati stressors possono provocare “scossoni” tali all’impalcatura/coerenza da far crollare importanti cardini - o difese  - e, da qui, il palazzo sottostante potrebbe crollare repentinamente.

Come a dire: un trauma, vissuto in modo unico ed irripetibile, potrebbe portare ad una violenta simbolizzazione di contenuti, prima intercettati e subcepiti (ibidem), la cui congruenza, paradossalmente, invece di essere benefica, verrebbe vissuta come una minaccia all’integrazione del sé e dell’identità: un break - down o crollo psicotico.

I clienti, in tal senso, parlano spesso di un “prima e un dopo” esistenziale: prima ero in un modo, poi, all'improvviso, ecco che non mi riconosco più.

Se volessimo, utilizzare, una metafora fiabesca, mi sovviene la “Bella Addormentata” di Perrault e la versione italiana di Basile “Sole, Luna e Talia”, dove la principessa viene risvegliata in modo violento, appunto, perché vittima impotente del principe che la fa sua.

La scena della violenza, infatti, provoca, spesso, reazioni di sconcerto, impotenza, rabbia e dolore: sentimenti, questi, provati dai clienti qui descritti.

Perché, allora, questa fiaba è importante? Perché, la metafora della violenza, nonostante la sua bruttura, riflette empaticamente il sentire doloroso del cliente smarrito: la violenza con cui si sveglia Talia è la medesima di chi si sente gettato troppo violentemente in una realtà ancora non digeribile e non mentalizzabile.


Francesca Carubbi

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domenica 26 dicembre 2021

L'Uccel Bel Verde: fiaba e smacheramento della menzogna in terapia. Un esempio

 Ludovica (naturalmente, nome di fantasia)  è una donna sulla quarantina. La seguo da qualche anno.

 Devo ammettere - in modo profondamente congruente - che adoro ascoltare i suoi sogni e le sue storie inventate. Sogni e fiabe come un felice connubio.

Dovete sapere che Ludovica è una bravissima artista e, da qui, in una seduta, nel raccontare un suo prodotto onirico, per farmi capire il tipo di uccello che ha sognato, mi mostra un suo disegno.

Mentre lei parla, mi sovviene una fiaba italiana, che le propongo come sinossi di ciò che sta narrando: “L’Uccel bel - verde”: un uccello magico la cui particolare caratteristica è quella di smascherare la menzogna. Una bugia familiare, guarda caso: “Adesso sentiamo l’Uccel bel - verde cosa ci racconta, - disse il re.

L’Uccel bel - verde saltò sulla tavola davanti al re e disse: - “Re, questi sono i tuoi figli - I ragazzi si scopersero il capo e tutti videro che avevano i capelli d’oro in fronte. L’Uccel bel - verde continuò a parlare e raccontò tutta la sua storia…”

Perché proprio questa fiaba?

Per il fatto che, se dovessi riassumere la storia di Ludovica, potrei farlo con il titolo di una canzone di Pink “Family Portrait”... Un ritratto di famiglia, contraddistinto da minimizzazione (Cirillo, 1996 ) della carenza e da inversione di ruoli importante

Un ritratto di famiglia che, attraverso le sue parole, diviene una Fiaba familiare,  con proprie sue funzioni ben stabilite. Anchilosate, oserei scrivere.

Seguendo Propp (Propp, 1928), Ludovica ha incarnato, in tal senso, in modo distorto, la funzione dell’eroina danneggiata, purtroppo senza accorgersene: la cliente ha trascorso buona parte della sua esistenza a raccogliere i cocci di altri, soprattutto economici.

Ed è proprio la questione del denaro ad essere, per lei, spinosa: E. prova molta resistenza a raccogliere qualcosa per sé.

Appare, inoltre, parossisticamente inconsapevole nel descrivere il funzionamento della sua famiglia. Spesso non trasparente, nascosto ed in sordina.

Meccanismo in cui appare stritolata: è lei che deve risolvere i problemi, compresi quelli della sorella che descrive, all’interno di una fiaba inventata, come principessa; mentre lei non è altri che una povera e dimessa contadinella che la guarda dal basso, pronta ad esaudire ogni suo capriccio.

E così Ludovica, attraverso un tortuoso viaggio, cerca di smascherare sempre più gli inganni a cui ha ceduto, risvegliandosi, grazie alla progressiva facilitazione del disaccordo interno e della messa in discussione di costrutti rigidi (Rogers, 1957; 1963), come una moderna Rosaspina (Grimm, 1812 - 1815), pronta a trasformarsi, anch'essa, in “principessa” consapevole.

Francesca Carubbi

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domenica 10 ottobre 2021

Fiaba e psicoterapia al femminile: come l'antagonista facilita la congruenza di sentimenti difficili


 In psicoterapia, sto ascoltando diverse donne. Ognuna con la sua storia particolare, unica e irripetibile.

Ciononostante, ogni loro diversa esperienza si connota di un unico denominatore: la necessità di preservare, a mo’ di coerenza interna (Rogers, 1951), la propria anima bella.

Essere donna significa, per loro, essere forti, sempiterne accoglienti e accettanti.

Soprattutto, mai arrabbiate. Mai scomode. Mai voce fuori dal coro.

Di queste donne, mi ha profondamente colpito, tra le altre cose, la loro capacità di razionalizzare e, come direbbe Pinkola Estes (1992), di banalizzare il male. Ciò che non funziona. Ciò che non può essere accettato per la propria fioritura.

E poi, in psicoterapia, succede…

Succede che, grazie alle tre condizioni necessarie e sufficienti (Rogers, 1957), la donna riesca, seppur con timore, ad accedere e a dare fiducia al proprio Alter Ego; alla sua parte Ombra; all’indicibile; a tutti quei sentimenti che, al di fuori, non possono essere accettati.

Rabbia, gelosia, invidia… Sentimenti che fanno parte di tutti noi ma che evocano vissuti di paura e di biasimo.

Personalmente, quando percepisco tra le righe la presenza di questi vissuti difficili - Rogers, in tal senso, ci fa apprendere come l'empatia sia anche l’ascolto di ciò che non viene esplicitato in modalità verbale -, cerco di facilitare la loro integrazione cognitiva, in modo congruente o autentico (ibidem), con la fiabe: nello specifico, con le fiabe tradizionali, non edulcorate ma autenticamente vere.

Da qui, tra tutte le funzioni della Fiaba (Propp, 1926), la figura dell’antagonista è quella più efficace. Perché le donne hanno bisogno di dare voce a ciò che è percepito come estraneo, perché considerato mostruoso e indegno (Doyle, 2021), ma così connaturato in ognuno di noi. E l’antagonista fa proprio questo: è, per natura, oscuro e infido e il suo scopo è mettere i bastoni tra le ruote alla nostra Tendenza Attualizzante (Rogers, 1980). 

Non è, forse, ciò che ci arreca il sintomo? Non è il sintomo, di cui soffriamo, proprio colui che vuole sbarrare la strada al nostro sviluppo? Non è forse proprio quella parte di noi che cerca di autosabotarsi? Che si traveste, sotto falso nome, per ingannarci, proprio come l’antagonista? E non è forse scopo della psicoterapia di smascherarlo?

 In tal senso, se è vero che “i personaggi delle fiabe [...] sono figure eteree e trasparenti” (M.T. Orsi (a cura di), 1998), è altrettanto fondato il fatto che è proprio la loro trasparenza a conferire loro la caratteristica di essere oggetti di evocazione emotiva e, quindi, di identificazione empatica (Carubbi, 2019): il dar voce al proprio antagonista interiore, grazie alla risonanza emotiva con quello fiabesco, permette di integrare sempre più, in modo congruente, le parti di sé negate e distorte (Rogers, 1951), ai fini di una maggior sovrapposizione tra il sé ideale e sé reale (ibidem) e, da qui, di una percezione di sé più realistica: come ci insegna Rogers (1961) in noi esiste un curioso paradosso, in quanto più ci accettiamo, più possiamo cambiare.

Per fare un esempio, il racconto di una mia cliente, molto razionale, nel descrivere la sua invidia, nata durante un’occasione conviviale, mi ha fatto immaginare lei nelle vesti della tredicesima fata de “La Bella Addormentata” (Grimm, 1812 - 15), esclusa dal pranzo reale.

Costei, infatti, ben rappresenta ciò che definiamo invidia: lo smacco, l’esclusione, il minus derivato da un doloroso confronto.

Fu un’intuizione felice che permise una maggiore esplorazione di questo sentimento così politicamente scorretto: l’identificazione con la fata ha permesso, in altri termini, di entrare nella propria Saggezza Organismica (Rogers, 1951) e darle voce con meno paura.

Le fiabe, allora, possono essere uno strumento funzionale per aiutare l’emersione di ciò che abbiamo negato alla coscienza, perché qualcuno prima di noi ha dato umana voce a tutto questo.


Francesca Carubbi

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domenica 3 ottobre 2021

Zio Lupo: una fiaba tradizionale non edulcorata per l’accettazione dei sentimenti difficili e lo sviluppo dell’ empatia nei bambini

 


“Zio Lupo” è una fiaba popolare romagnola la cui caratteristica principale è l’assenza del classico lieto fine.

La fiaba, infatti narra la vicenda di una bimba così golosa che chiede a Zio Lupo di prestarle una padella per cucinare le frittelle.

 

Zio Lupo presta la padella a condizione che la bimba gliene offra una parte.

Tuttavia la golosità della bambina è tale che questa mangerà anche la parte del Lupo: “Allora, per riempire la padella, raccolse per strada delle polpette di somaro”.


Zio Lupo, accortosi della truffa, si vendicherà mangiando la bambina:

“- Mamma mamma c’è il lupo!

  • Nasconditi sotto le coperte!

  • Adesso ti mangio! Sono nel focolare!

La bambina si rincantucciò nel letto, tremando come una foglia.

  • Adesso ti mangio! Sono nella stanza!

La bambina trattenne il respiro.

  • Adesso ti mangio! Sono ai piedi del letto! Ahm. che ti mangio! - E se la mangiò.”


 Questo finale particolare, anche se non propriamente felice, può, tuttavia, facilitare nel bambino profondi apprendimenti:

  1. In primis, l’identificazione del bambino con il Lupo permette una sublimazione non solo della propria spinta aggressiva, bensì di tutte le emozioni ad essa correlate: rabbia, gelosia, odio… Pensiamo, ad esempio, alla nascita di un fratellino o sorellina, o ad un litigio tra bimbi, o ancora ad un conflitto familiare… Le emozioni, in tal senso, divengono dicibili, comunicabili, narrabili e digeribili. Grazie ai personaggi, da terrificanti ed estranee, diventano autentiche, perché profondamente vere, reali, quindi umane.

  2. Attraverso la fiaba, quindi, il bambino può dare spazio, in modo saggio, alla propria saggezza organismica (Rogers, 1951), senza censure né biasimi e, allo stesso tempo, apprendere che non tutti i comportamenti possono essere accettati nè permessi: l’accettazione delle emozioni, in altri termini consente al bambino sia di non sentirsi sbagliato sia di comprendere l’importanza di una libertà responsabile, ossia contraddistinta da sani limiti: il bambino apprende, così, l’importanza dell’empatia, dell’incontro “Io - Tu” che può avvenire solo nel momento in cui si rinuncia ad una parte del proprio narcisismo, quest'ultimo ben rappresentato dalla golosità della bambina

  3. Infine, il bambino, da un punto di vista sociale e culturale, apprende che i pregiudizi e gli stereotipi, se non messi in discussione, possono divenire dei veri e propri costrutti rigidi e immodificabili (Rogers, 1951), in quanto mostrano la realtà attraverso una ferrea dicotomia “bianca o nera”: il fatto che il Lupo sia, in fin dei conti la “vittima” dell’inganno, permette al bimbo di interrogarsi sul Bene e Male in termini assai più complessi e, soprattutto, intercambiabili; come a dire: nessuno è totalmente buono o cattivo ma la luce e l’oscurità fanno parte di tutti noi.



Francesca Carubbi
Psicoterapeuta
Autrice
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giovedì 9 settembre 2021

Cenerentola, cotillons e gelosie: la fiaba come strumento di congruenza ed educazione emotiva


 “Possibile” dicevano “che questa stupida se ne stia seduta accanto a noi in salotto? Chi mangia deve guadagnarsi il pane; fuori da qui, sguattera!” Le portarono via i suoi begli abiti, le fecero mettere una vecchia casacca grigia e le infilarono un paio di zoccoli”.

Ho letto questo passo de “Cenerentola” dei Grimm insieme ad una mia cliente, la quale ha riportato in seduta un’interrogazione circa la sua posizione o ruolo familiare: “Perché mi devo sempre sentire la Cenerentola della situazione?”

Da un punto di vista rogersiano, prendendo come riferimento la teoria dello sviluppo della personalità e della nascita dello stato di conflitto o incongruenza (Rogers, 1951), la cliente in questione ha riconosciuto la propria ambivalenza circa un vissuto relazionale verso la mamma e la sorella: se la sua valutazione interna (ibidem) le suggerisce di fidarsi della sua rabbia scaturita da una gelosia subita (?) la sua coerenza interna - inflessibile e rigida - vorrebbe che lei si sentisse in colpa di questo.

Nella dinamica interna della mia cliente, la frattura nasce nella presa di saggia consapevolezza di essere stata, spesso, in una posizione remissiva, passiva, priva di empowerment personale. Posizione, questa, che non solo le ha permesso di ottenere approvazione materna ma anche di sostare in un ruolo di eterna seconda rispetto alla sorella minore. Ecco, allora, la felice metafora di Cenerentola, ossia colei che incarna proprio la subalternità, lo sfondo, la passività.

Riporto questo stralcio per mostrare la duttilità fiabesca - la sua plasticità - nell'offrire di slancio preziose opportunità di apprendimento, non solo cognitivo, bensì emotivo - relazionale.

La fiaba, allora, si presta ad essere modellata, trasformata, letta e interpretata per dare voce al proprio vero sé, spesso sepolto da dettami educativi seduttivi, incoerenti e inflessibili.

Con le fiabe, quindi, si può giocare; si può dare voce al proprio sentire, alle proprie emozioni, soprattutto a quelle difficili, al sintomo, inteso non solo come stato di frattura interna, bensì come “significante fantasmatico, un’angoscia che parla della verità del Soggetto rispetto al Desiderio inconscio” (Carubbi, 2019, p. 23) e nello specifico “il sintomo del bambino è il segnale di disfunzioni comunicative e relazionali all'interno della famiglia e/o della coppia genitoriale” (Carubbi, 2018).

Le fiabe ci permettono, quindi, di entrare nel proprio Bosco interiore.

Ciò nonostante, non dobbiamo dimenticare il ruolo importante, direi strategico, della fiaba e dell’albo illustrato nell'educazione, in quanto “in termini sia di una loro lettura, nonché di una loro scrittura creativa o inventiva, permettono di entrare in uno <spazio sacro>, ossia in un rispettoso ascolto di se stessi, empatico e accettante” (ivi; pag. 21).


Francesca Carubbi
Psicologa - psicoterapeuta, Fano (PU)
Autrice e condirettrice, Alpes Italia, Roma