venerdì 26 maggio 2017

I bambini possono "sbucciarsi" ancora le ginocchia?: per un'apertura all'esperienza. Alla vita piena


 "Tutto quel che sono è sufficiente, se solo riesco ad esserlo"
C. Rogers


Sembra un titolo provocatorio. Ma non lo è. E' un partire da ricordi. Da mei ricordi personali, di bambina, a cui piaceva l'odore dell'erba, che si divertiva a giocare nei campi di grano, che raccoglieva vermiciattoli dalla terra, che si arrampicava su quel moro, casa di mille avventure, e si sporcava il vestitino buono. Un'infanzia di avventure, di vivacità, di litigate con gli amici, ma di tanta, tanta curiosità. Un'infanzia piena di ammaccature, di graffi alle ginochhia, di sorrisi, di lacrime e offese. Soprattutto un'infanzia di gioco, di creatività. E' da qui che voglio partire: dall'importanza, per un bambino, di poter sperimentare anche il dolore di quelle cadute, la frustrazione della sconfitta, del non arrivare sempre primo. L'importanza dell'attesa, di lottare per i propri desideri, per i propri obiettivi. Lo sbuccio alle ginocchia, lo vedo una metafora della vita, di ciò che è in realtà: un sali e scendi, un'apertura all'esperienza di cui non possiamo sapere la fine. Una direzione e non una destinazione. Una complessità di valori e vissuti emotivi, non sempre intrisi di felicità, ma anche di sofferenza, di inciampi, appunto. Una "vita piena" (Rogers, 1961). Affinché un bambino possa apprezzare il valore di un'esistenza complessa, non sempre coerente, controllabile, ma sempre cangiante, sempre differente, sta proprio al genitore, per primo, accettarne le mille sfaccettature. Accettare il fatto che ci si fa anche un po' male per imparare e che, soprattutto, la propria visione della vita sarà sempre diversa da quella del proprio figlio: perché si è diversi l'uno dall'altro. Perché ognuno di noi dà un significato personale a ciò che vive.  Al genitore, allora, spetta l'arduo compito di  stare in quella posizione, difficile ma molto arricchente, quale quella della congruenza: una saldezza interiore, una "funzione paterna" limitante (anche con se stessi) che permetterà l'esternarsi di profonda  empatia ed autentica accettazione, non "possessive" e soffocanti (Rogers, 1961). Una posizione che permetta l'accettazione del bambino e dei suoi vissuti e che riesca, in modo sufficiente, a distinguere e rispettare il desiderio importante ed autentico del bimbo di voler aprirsi alla propria esperienza, in modo totale, che possa apprendere da essa, attraverso l'unione di idee e sentimenti.(Rogers, 1977; Bruzzone, 2006). Spetta al genitore di tollerare la rabbia di un vestito sporco, lo spavento davanti al pianto di dolore del bambino, senza spaventarlo più del necessario, ma ascoltando il significato di quelle lacrime, dare loro dignità. Spetta al genitore, quando necessario, non accettare, in modo fermo e deciso un comportamento, appunto, inaccettabile, senza perdere di vista la fondamentale distizione (sovente dimenticata) tra la persona e ciò che fa.  Spetta al genitore di accettarsi per ciò che è, di apprendere dai propri inevitabili e umani errori ed apprendere da essi. Spetta al genitore di essere genuinamente autentico con se stesso, di perdonarsi, di accettare la propria fragilità, le proprie giornate "no", i propri momenti di rabbia e di sconforto. Solo accettando anche i nostri lati che non amiamo, compresi quelli riguardanti la nostra infanzia, la nostra umanità, possiamo divenire congruenti, accettanti
ed empatici con i nostri figli, facilitando la loro Tendenza Attualizzante.
Per riassumere: "Ci accorgiamo che è molto difficile permettere ai nostri figli...di pensare in modo diverso dal nostro a proposito di certe questioni e certi problemi...Eppure sono arrivato a rendermi conto che l'alterità della singola persona, il diritto cioè che ciascuno ha di interpretare come crede la propria esperienza e di trovare in essa i propri valori, è una delle potenzialità più preziose della vita". (C. Rogers, trad. it., 39)

(immagine dal web)